Monte Guaidone e l'inghiottitoio della piana di Castelluccio

Una bassa e spanciata piramide erbosa privilegiato punto di osservazione sul Pian Grande.
Una escursione fuori dai canoni, una lunga passeggiata sopra e dentro il Pian Grande di Castelluccio. Il monte Guaidone è fantastico nella sua centralità rispetto alla piana, offre una vista unica su tutto il grande catino e il fosso Mergani, meglio conosciuto come l'inghiottitoio, merita la visita perchè è una vera unicità naturalistica di peculiare importanza.


Quando si pensa ai Sibillini arrivano prepotenti le immagini delle lunghe creste, le cime del Redentore, di Pizzo del Diavolo, la Sibilla, il lago di Pilato o la gola dell’Infernaccio e la fioritura di Castelluccio; ma è intorno a questo piccolo borgo, che con grandi sforzi sta lentamente risorgendo, che ci sono altre attrazioni, non meno conosciute ma sicuramente anche non meno importanti. La piana nella sua quasi banalità è il contrapposto delle vette che ha intorno, un ambiente all’apparenza piatto e insignificante ma che nasconde peculiarità quasi uniche e comunque affascinanti. Lasciando perdere la famosa e ormai turistica fioritura quando ci cammini nel mezzo, soprattutto nelle stagioni autunnali e invernali meno frequentate è come se il tempo si fermasse e le dimensioni si annullassero; l’unico rumore che si sente è il sibilo del vento, i passi sono morbidi e quasi affondano in un terreno umido, sembra di stare all’interno di un catino enorme in cui ci si sente piccolissimi e fuori dal mondo, col tempo che scorre diversamente, più lento. Si vive una dimensione onirica, si riesce ad ascoltare cuore che batte. C’è un piccolo monte che si eleva quasi al centro della piana, piccolo si fa per dire, sfiora i 1700m. dal livello del mare, si alza come una larga piramide di circa 350m e solo da un lato, quello Ovest, ha un’ampia e lunga dorsale, quasi una corsia, che lo unisce alle sponde del catino; dalla sua cima tonda volevo da tempo godermi la piana di Castelluccio, avevo pensato che sarebbe stato bello raggiungerlo nel periodo della fioritura ma poi ho convenuto che in quello invernale doveva avere un fascino ed una bellezza diversi; oggi ci siamo saliti. Raggiungiamo la sella sotto il monte Ventolosa, poco sopra il diruto rifugio Perugia; parcheggiamo sullo spiazzo, il vento come sempre non manca mai e ci prepariamo al riparo dell’auto. Percorriamo per un breve tratto la strada che si stacca verso Sud, al primo incrocio prendiamo una sterrata che sale sulla destra per pochi metri fino a raggiungere una ampia dorsale che già segna la nostra via, il monte Guaidone è davanti, spanciata piramide erbosa dominata subito dietro dal profilo del Redentore imbiancato. I resti di un inutilissimo impianto di risalita deturpano inutilmente il paesaggio, uno dei tanti scempi compiuti quando si sognava ancora in grande. Seguiamo la sterrata ma l’abbandoniamo quasi subito per percorrere integralmente la larga cresta, il pian grande si allarga sulla sinistra contenuto dalla lunga linea di cresta che dal Redentore raggiunge il Bove, sulla destra invece sprofonda la piccola piana, ai più dimenticata, dove spicca il piccolo laghetto, in questo periodo ovviamente gonfio. Seguendo una flebile traccia incrociamo di nuovo la sterrata ma solo il tempo di attraversarla che iniziamo la salita al Guaidone (+40 min.); si potrebbe salire dove si vuole, i versanti sono ripidi ma tranquillamente possibili, seguiamo la traccia che a tratti sparisce e che lentamente sale aggirando la piramide sul versante Ovest, raggiunge e attraversa il bosco e quando se ne esce si è già in vista dello sbocco (1500m. circa) su quella che potremmo definire la linea dello spigolo Nord del Guaidone. Questa montagna a dire il vero tutto ha meno che spigoli, un paio di dorsali più accentuate a Sud-est e a Nord ma niente di più, seguiamo integralmente quella a Nord sferzati da un vento che ha aumentato di intensità e che ci frusta direttamente in faccia. Forse a causa del vento che non ci fa alzare la testa la salita sembra più lunga e impegnativa di quanto non sia, la rotondità della cima la rende ancora di più interminabile; in vetta (+1,20 ore), una larga cupola, sorge uno sconnesso e basso omino di pietre al cui centro è nato molto ironicamente un cespuglio di rose, alcune assi che certamente formavano una croce posticcia sono sparpagliate lì accanto, la chiave di lettura è molto semplice ed evidente ma ai più sembrerà una casualità. Per fortuna a due metri dall’omino una buca, una dolina profonda un metro ci da riparo dal vento e ci permette di sostare col Redentore di fronte e col vento che ci sibila sopra la testa ma che nemmeno ci sfiora; siamo centralissimi alla piana di Castelluccio, le dorsali che la chiudono tutto attorno, siamo solo noi due e una natura di una vastità e bellezza indescrivibile, ci rendiamo conto che siamo così abituati a frequentare questo territorio che non siamo più capaci di coglierne la vera bellezza; servono questi momenti, la voglia di non fare grandi cose ma di andare a cercare quelle essenziali e vere per riappropriarcene. Dopo poco meno di mezz’ora dobbiamo però alzare le tende, il sole non basta a riscaldarci e la temperatura anche se non proibitiva ci mette le ali ai piedi. Il vento non molla ma per la stessa via dell’andata ora ci spinge da dietro, siamo veloci a scendere i 150m. di dorsale, riprendiamo il sentiero verso il bosco per un breve tratto ma ben presto, con destinazione la piana, iniziamo a traversare tra il falasco piegato dalle recenti nevicate. Il pendio non è eccessivo ma è lungo, sono circa 300 i m. da scendere e senza traccia, tra l’erba e le buche delle talpe scendere non è esattamente agevole. Ovviamente non c’è traccia da seguire, la destinazione è il fosso Mergani, quella fessura serpentosa che ci ha tenuto compagnia in ogni momento della giornata e che taglia la piana dal suo centro in direzione est; è il famoso inghiottitoio della piana di Castelluccio e volevo da tempo andarlo a vedere da vicino. La piana, nella parte Est è disseminata di piccoli laghetti, pozze di ristagno dell’acqua alte poche centimetri, delle sorte di acquitrini limpidissimi dove le montagne intorno si specchiano; la piana di Castelluccio al contrario di quello che sembra ha un dislivello lento ma costante e scende verso Est, non a caso è la parte Ovest, quella sotto il paese di Castelluccio, che viene utilizzata per coltivare la famosa lenticchia; il ristagno di acqua del versante Est non lo permetterebbe e l’utilizzo di questa parte è prettamente agricolo per la produzione del foraggio. La neve si è ritirata da poco, la piana ha raccolto tutta l’acqua che ne è derivata, il terreno è solido ma sembra di camminare su una spugna dura inzuppata, mai è stato così leggero camminare. Unica accortezza che serve è quella di deviare dalle piccole depressioni del terreno dove spuntano laghetti effimeri o dove anche se l’acqua non c’è il piede affonda di pochi centimetri nel terreno inzuppato. Dal centro della piana si perdono completamente le dimensioni; guardarsi intorno e perdere completamente la percezione delle misure è immediato; una piatta incredibile, erba bruciata dalla neve e piccole gemme che luccicano di riflessi delle montagne intorno, è evidente e scontata la direzione verso l’inghiottitoio ma capiamo fin da subito che i tempi saranno dilatati rispetto alla percezione. Lento è il camminare, introspettivo, impalpabile il contesto e le emozioni che restituisce, raggiungiamo lentamente il fosso tra uno continuo aggiramento di acquitrini, lo raggiungiamo quando le sue dimensioni sono ancora piccole, un fosso poco largo e poco profondo, asciutto; ne seguiamo il profilo sul lato sinistro, ogni tanto un piccolo ramo si stacca lateralmente formando piccoli solchi, piccoli fossi secondari che si fanno scendere e risalire senza problemi, l’acqua sparisce velocemente al loro interno, sono asciutti, non per niente fanno parte di un inghiottitoio. Il fosso di fatto non è altro che un accentuato avvallamento sulla piana, che va crescendo nelle misure via via che continua verso Ovest, la prateria che continua dentro un solco che la attraversa; alcune polle d’acqua affiorano ogni tanto nel centro del serpentone erboso più ampio e profondo, ma per lo più appare come un ambiente asciutto. Verificherò più tardi che non è proprio così, quando continuando verso Ovest e per evitare un aggiramento di un ramo del fosso molto largo, tento di scenderci dentro per attraversarlo. Al centro del fosso che scende ampio e graduale c’è un rigagnolo ulteriore, un fosso dentro il fosso, largo una quarantina di centimetri, incassato tra l’erba che a stento si vede, ci scorre acqua, limpida, e mi rendo conto che tra tanta erba arsa l’ecosistema è vivo, potente, affascinante. Ci avviciniamo al bordo della piana verso le coste del monte Ventolosa, il fosso si allarga e prende dimensioni importanti, si chiude improvviso sulle coste della montagna stessa, un’ansa più larga e profonda, e finisce lì, nel punto forse più basso della piana dove confluisce lenta e silenziosa la gran parte dell’acqua che la piana e le montagne intorno riescono a convogliare; un ecosistema incredibile uno spillo di territorio che ha forse una valenza più importante di tutte le montagne intorno. Stando a ciò che sono riuscito a raccogliere di informazioni sembrerebbe che l’acqua immergendosi da questo inghiottitoio, oltre che raccogliersi in falde sotterranee vada a convogliarsi in quelle che alimentano la zona di Norcia e quella della valle del Tronto. L’anello lo abbiamo chiuso tagliando la costa del monte Ventolosa, salendo lentamente e più o meno paralleli alla strada che scorre più in alto; quella che dal basso ci è sembrata una netta traccia è sparita più volte e alla fine ci siamo resi conto che poteva essere solo una di quelle effimere dovute al passaggio degli animali. La piana lentamente entrava in ombra, gli acquitrini si specchiavano nel bianco della neve del Redentore, alcuni, quelli che forse non hanno mai preso sole, erano ancora gelati; il panorama pur nella sua costante immobilità cambiava nei dettagli, lo ha fatto per tutto il giorno. Raggiungiamo la sella dove abbiamo parcheggiato (+2,30 ore) con uno stato d’animo sospeso; c’era la consapevolezza di aver vissuto una giornata diversa, interessante oltre la camminata, ci siamo sentiti arricchiti da un territorio che pensiamo di conoscere ma che continua a regalarci piacevoli sorprese.